PAGARE L’AFFITTO AI TEMPI DEL COVID-19

In questi tempi bui per l’occidente che tutti stiamo vivendo, segregati in casa, con il timore per un futuro che tutti i dati macroeconomici prefigurano come plumbeo, è una costante leggere sui social o sentire con le proprie orecchie, persone che si lamentano denunciando l’evidente difficoltà a pagare l’affitto di casa o del negozio.

Chi, come il sottoscritto, ha l’onore e l’onere di svolgere la professione di avvocato, pressoché quotidianamente sente rivolgersi da clienti, imprenditori, financo in interviste radiofoniche, la stessa, assillante domanda: “Avvocato, ma il governo ha fatto qualcosa per venire incontro alle persone che devono pagare l’affitto di casa o del negozio?”.
La risposta, ovviamente, è mutata nel corso del tempo, a seguito delle diverse misure  (in realtà poche) che il governo e gli enti locali hanno adottato per affrontare il problema.
Questo articolo cercherà di districarsi nella selva di norme eterogenee che popolano il nostro caotico ed elefantiaco sistema legislativo, individuando quali strade i privati o gli imprenditori possano percorrere per cercare di alleviare il peso di un canone di locazione che, soprattutto nei grandi centri urbani, incide per oltre il 50% sul budget familiare (a Roma, un appartamento di 60/70 mq in periferia, ha un canone medio di locazione mensile di 800,00/1.000,00 euro).
Partiamo  dalle locazioni ad uso abitativo dicendo subito che il Governo ha deciso di non decidere.
Nessun sussidio, nessun bonus, nessun credito d’imposta. Silenzio totale.
La logica di tale scelta è stata quella di puntare sul sussidio al reddito (cassa integrazione, cassa integrazione in deroga, reddito di cittadinanza – per chi lo ha ottenuto-) dimenticando però che il popolo delle partite iva, dei professionisti, dei piccoli imprenditori, ha ricevuto poco e niente (i famosi 600 euro hanno una funzione sostanzialmente “alimentare”, quindi servono pressoché soltanto a far fronte alle esigenze primarie quali cibo e beni di prima necessità e poco più).
Fortunatamente molte regioni- pressoché tutte- hanno stanziato fondi straordinari per  adiuvare i privati a far fronte al pagamento del canone.
Sul sito di ogni regione (per la regione Lazio alla pagina http://www.regione.lazio.it/rl_casa/?vw=contenutidettaglio&id=441) si trovano le informazioni per accedervi, anche se il compito di veicolare le domande alla regione viene demandato ai comuni e, pertanto, chi abita in comuni più grandi come Roma, dovrà aspettare qualche giorno in più viste le lungaggini burocratiche a cui la Capitale e le grandi città  ci hanno spesso abituati.
Questione invece molto più complessa è quella relativa alle locazioni ad uso c.d. diverso (quelle commerciali e per sudi professionali, per intenderci).
Per questi immobili, la cui unica finalità è quella di essere impiegati per l’esercizio dell’attività economica ivi esercitata, venendo meno quest’ultima (pensiamo a parrucchieri, negozi di abbigliamento, estetisti, ristoranti che non facciano il delivery, arredamento chiusi da quasi due mesi), viene meno anche l’utilità di pagare un canone che diviene un puro peso economico-finanziario.Per questa tipologia di contratti, ad oggi, l’unico provvedimento assunto dal governo centrale (oltre agli ulteriori interventi relativi ai lavoratori, allo slittamento delle imposte ecc.), è quello di concedere un credito di imposta corrispondente al 60% dell’ammontare del canone di marzo, sulle future imposte da versare e solo per gli immobili aventi una categoria catastale C/1. Ancora una volta il provvedimento appare a dir poco miope perché in molte città- Roma in primis- a causa della lentezza e rigidità della burocrazia e, ancor di più a causa di norme urbanistiche spesso interpretate arbitrariamente, per non dire fraudolentemente, dai funzionari all’uopo preposti, molti esercizi commerciali ed attività economiche vengono obtorto collo esercitate in locali senza l’accatastamento C/1.
Per di più lo strumento del credito di imposta, studiato da molti esperti di diritto tributario tra i quali chi scrive, è uno strumento di natura economico/tributaria e non certo di natura finanziaria e, come tale, non immette denaro nelle tasche dei contribuenti, ma allevia il peso delle future imposte da versare.
Ovviamente, se vi sarà un utile d’impresa (e nel 2020 tutto depone a favore del NO) e quindi imposte da versare.
Ma soprattutto se vi sarà ancora un’impresa e non macerie e curatori fallimentari.Allora l’alternativa sarebbe quella di cedere, ad esempio alle banche o a terzi, il proprio credito di imposta facendoselo scontare.Per capirci il meccanismo è il seguente: vanto un credito d’imposta verso lo stato di 100, lo cedo a qualcuno che me lo paga 70- così metto in tasca subito i 70- poi l’acquirente, lo utilizza come 100 quando andrà a pagare le imposte, con un risparmio di imposta di 30.Tutto bene, se non fosse che, con una serie di provvedimenti legislativi, direttive e determinazioni dell’Agenzia delle entrate, tale pratica sia divenuta sempre più complessa se non addirittura vietata come accaduto per l’accollo del credito e il conseguente uso dello stesso per pagare in compensazione le imposte.
E allora, ci sono altri strumenti?
Si. Ci sono.
E sono lì da oltre 70 anni.
Sono strumenti che si trovano all’interno del codice civile del 1942 e che sono rimasti immutati.
Il primo. Molto più drastico, ma in situazioni estreme, forse anche rimedi estremi sono da considerare, viene fornito dall’articolo 1474 del codice civile il quale cosi recita: “nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’art. 1458”.
È evidente che un commerciante potrebbe risolvere il contratto, ma è ovvio che non possa o non voglia farlo, per non perdere l’avviamento maturato- e la relativa indennità- o non voglia comunque cercare un’altra sede ove operare.
Ecco allora che viene in soccorso una possibile interpretazione c.d. “costituzionalmente orientata” della norma, secondo la quale,  fino a quando l’evento straordinario, temporaneo, che rende impossibile all’imprenditore lavorare, persiste, persiste anche il diritto alla sospensione del pagamento del canone- sempre ovviamente operante su richiesta di parte-.
Ovviamente, proprio perché una interpretazione della norma, non vi è alcuna certezza sulla sua tenuta in caso di contenzioso.
Altra ipotesi, che invece, appare non discutibile, è quella concessa dall’articolo 1623 del codice civile il quale dispone che “Se, in conseguenza di una disposizione di legge o di un provvedimento dell’autorità riguardanti la gestione produttiva, il rapporto contrattuale risulta notevolmente modificato in modo che le parti ne risentano rispettivamente una perdita e un vantaggio, può essere richiesto un aumento o una diminuzione del fitto ovvero, secondo le circostanze, lo scioglimento del contratto”.
La norma, quasi sconosciuta anche agli stessi operatori del diritto, concede un diritto al conduttore di chiedere una revisione al ribasso del canone, senza il rischio, come nel caso della norma di cui si è dato conto poc’anzi, di pretendere di sospendere il pagamento del canone e vedersi per tal motivo,  magari in modo arbitrario o fraudolento, sentirsi dichiarare risolto il contratto dal proprietario ed attivata una procedura di sfratto.
Purtroppo però, in un sistema paese che pare sempre più in balia di sé stesso e con timonieri non sempre dimostratisi all’altezza, tocca ai privati doversi muovere e chiedere il rispetto dei loro diritti.

 Avv. Massimo Baldi P.B

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