Covid19, nel Lazio il balletto dei posti letto

di Michel Emi Maritato

L’organizzazione dei ricoveri negli ospedali ai tempi della pandemia. Disagi e incongruenze

Ospedali ed emergenza coronavirus: un rapporto contrastato. Per usare un eufemismo, le idee messe in campo in un breve lasso di tempo dalla Regione Lazio per combattere l’epidemia, hanno dato esiti non proprio esaltanti. Era il 4 marzo – pochi giorni prima della chiusura totale dell’Italia – quando l’assessore alla Sanità Alessio D’Amato annunciava in Consiglio regionale i primi provvedimenti anti Covid-19. Da allora, un susseguirsi di provvedimenti, determine, ordinanze, quasi una sfida al governo di Giuseppe Conte a chi ne colleziona di più. Obiettivo primario di D’Amato reperire posti letto ovunque, aumentare le terapie intensive, creare i “Covid hospital” attrezzando strutture in ogni quadrante della città e in provincia, sia pubbliche che private. Ospedali a fisarmonica, pronti a offrire i propri spazi per liberarli dopo alcuni giorni, in base all’andamento della curva del contagio. Quasi fossero dei pop-up shop, ovvero i negozi a tempo mutuati dalla cultura britannica che tanto stanno prendendo piede in Italia, specie tra le giovani generazioni. Peccato che, al contrario di chi vende magliette o scarponcini, nei nosocomi si ha a che fare con la salute e con le persone, di solito in condizione di fragilità. La considerazione però non ha scoraggiato i vertici della Regione Lazio che, di primo acchito hanno accarezzato l’idea di poter utilizzare il Centro paraplegici di Ostia, decisione respinta tra le proteste di ricoverati e famiglie. Presso la struttura del litorale romano avrebbero dovuto trovare accoglienza 14 soggetti positivi al virus, in condizioni non gravi ma la proposta non è stata digerita. Il centro ospita in lungodegenza pazienti fragili, in alcuni casi immunodepressi, con patologie neurologiche che in alcuni casi interessano l’apparato respiratorio. Soggetti che non possono certo rischiare di entrare in contatto con pazienti altamente infettivi. Uguale preoccupazione per i familiari dei 9 ricoverati all’Ucri, l’unità di cure residenziali intensive del San Camillo – già ospitata al Forlanini ormai chiuso da cinque anni – su cui per alcuni giorni incombeva la tragica possibilità di essere trasferiti, fortunatamente sfumata. Non immune dal valzer degli spostamenti il policlinico Umberto I. Con un provvedimento firmato dal direttore della Sanità regionale Renato Botti è stata disposta per l’ospedale universitario la chiusura delle divisioni di cardiochirurgia e di ortopedia e dell’intera area traumi, con l’attivazione di un reparto dedicato a ricoveri per Covid-19 che necessitino di assistenza complessa, in terapia intensiva. Anche il padiglione Eastman, afferente e attiguo all’Umberto I, è stato individuato quale centro di ricoveri per persone affette dal virus ma il primo impatto non è stato tra i più piacevoli, causa guasto all’impianto fognario che ha visto il rischio, per i malati, di essere sommersi dai liquami. Pochi giorni dopo, il 23 marzo, in piena emergenza pandemica si è dimesso il direttore sanitario Ferdinando Romano, mentre i pazienti della cardiochirurgia sono stati trasferiti nel dipartimento di patologie cardiovascolari del San Camillo, in cui sono confluiti anche i degenti trasferiti dal policlinico di Tor Vergata, altra struttura dedicata a pazienti Covid-19. All’interno dello stesso, è stata allestita la Torre 8 di Medicina interna come esclusiva unità per i colpiti dal virus per assicurare 80 posti letto. Altro importante ospedale romano, il San Camillo, ha riservato tre reparti ai pazienti Covid-19 riconvertendo padiglioni prima riservati a ricoveri ordinari, tra le proteste di infermieri e medici che più volte hanno denunciato l’inadeguatezza di tale destinazione, in un ospedale non concepito per patologie contagiose. Tante strutture in movimento quindi, in cui la parte del leone l’ha fatta lo L’Inmi Spallanzani – istituto di ricerca e cura per le malattie infettive – polo di riferimento del Lazio per il Covid19 e unico ospedale regionale in cui non sembra ci siano stati operatori contaminati dal contatto con i pazienti. Una grande parte nella vicenda coronavirus l’hanno avuta le strutture private, a cominciare dalla clinica Columbus, afferente al policlinico Gemelli, per finire con l’istituto cardiologico Casalpalocco, passando per il Regina Apostolorum di Albano. Tutto questo mentre sui social una petizione per riaprire l’ex sanatorio Forlanini e destinare 50 posti nel padiglione centrale ai malati Covid, raccoglieva la bellezza di 120mila sottoscrizioni, totalmente ignorate dall’assessorato alla Sanità del Lazio, il cui responsabile D’Amato riteneva la proposta “totalmente strampalata”. Dopo tanti affanni, disagi per i pazienti no Covid, difficoltà per gli operatori, l’assessorato regionale, il 24 aprile è tornato sui propri passi, “sgravando” i principali ospedali generali dall’ingombrante presenza degli infettivi. San Camillo, San Giovanni, Grassi di Ostia e Pertini hanno riacquistato la vocazione originaria, liberando i posti letto e riconvertendo nuovamente le proprie funzioni. Proprio in quest’ultimo nosocomio, stiamo assistendo alla più paradossale delle vicende. I letti Covid sono stati ricavati nell’edificio A, costringendo le degenti della ginecologia e i piccoli della pediatria al trasferimento in altra struttura. Contestualmente, nell’ospedale di Pietralata sono state ridotte le accettazioni di medicina, chirurgia e ortopedia. Il tutto mentre un altro edificio, la palazzina B realizzata negli anni Novanta per accogliere pazienti malati di Aids, con tutti i requisiti per contrastare le patologie infettive, restava adibita a servizi di Day hospital e ambulatoriali. Le incongruenze non si esauriscono qui. Il reparto A, liberato dal 15 aprile con disposizione della direzione sanitaria, è oggetto di ulteriori adeguamenti in previsione di una futura, eventuale recrudescenza del Covid19. In sintesi: l’uso di un padiglione ad hoc, già sede di terapia sub intensiva, oggi smantellata viene ignorato, quando avrebbe potuto benissimo essere adeguato in breve tempo e con minimi costi. Al contrario, un altro reparto viene riadattato non senza difficoltà strutturali e, dopo essere svuotato, viene sottoposto a ulteriore restyling per convertirlo a futuri usi per pazienti contagiosi. Chissà cosa ne penserebbe la Corte dei conti, se fosse investita del problema.

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